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Riclassificati i fossili di Atapuerca

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Gli scienziati sono divisi sull’interpretazione dei 28 scheletri scoperti nel noto sito archeologico di Atapuerca, in Spagna.

Identificati in precedenza come Homo heidelbergensis di 600.000 anni fa, sembrano oggi essere degli uomini di Neandertal comunque non più vecchi di 400.000 anni.

Teschio da Atapuerca (Paul Hanna/Reuters)

Il sito archeologico di Atapuerca (wikipedia)

La Sierra de Atapuerca contiene il sito con più fossili umani al mondo e, per la sua importanza nel comprendere l’evoluzione, è diventato patrimonio mondiale dell’UNESCO. Milioni di euro, donati dall’Unione europea, sono stati spesi per la costruzione di un museo nella vicina Burgos.

Ma l’esperto britannico dell’evoluzione umana, il professor Chris Stringer, del Museo di Storia Naturale di Londra, ha messo in dubbio che il team al lavoro nel sito di Sima de los Huesos abbia identificato correttamente gli scheletri umani lì rinvenuti.

Invece di essere dei resti di Homo heidelbergensis risalenti a 600.000 anni fa, per Stringer quei resti sarebbero di Neandertal di non più di 400.000 anni.

Ricostruzione di maschio adulto di Homo heidelbergensis trovato a Sima de los Huesos (Sven Traenkner)

L’ “Old Man of La Chapelle” (Sven Traenkner)

La differenza è cruciale per la comprensione dell’evoluzione umana.

Gli scienziati a La Sima credono che l’Homo heidelbergensis sia un antenato dell’uomo dei Neandertal, ma non dell’Homo sapiens. Tuttavia, altri, tra cui Stringer, ritengono che l’Homo heidelbergensis sia effettivamente un antenato della nostra specie.

“Il problema è che molti degli scheletri rinvenuti a La Sima hanno chiaramente le caratteristiche dei Neandertal”, dice Stringer. “In particolare, i loro denti e mascelle hanno una forma molto simile a quelli dei Neandertal. Ma tutte le altre prove [che abbiamo] indicano che gli uomini di Neandertal non apparvero sulla scena per altri 200.000 anni. Datare queste ossa a una periodo così antico distorce completamente l’immagine della nostra evoluzione”.

Questa critica è supportata da Phillip Endicott del Musée de l’Homme di Parigi. I suoi studi del DNA umano e neandertaliano hanno dimostrato questi ultimi non apparvero come una specie distinta fino a 400.000 anni fa. “Eppure le ossa di La Sima, che presentano caratteristiche di Neandertal, si ritengono essere di 600.000 anni”, ha detto. “Questo non può essere vero”.

Le due ipotesi (nhm.ac.uk)

Un’altra critica è il metodo di datazione utilizzato fino ad oggi ad Atapuerca. Una stalagmite trovata appena sopra i resti è stata datata, grazie agli isotopi di uranio naturale, a 600.000 anni fa, e perciò gli scienziati a Sima sostengono che i fossili debbano essere più vecchi. Dicono che i 28 corpi furono gettati nella fossa come un atto di riverenza verso i morti e che la stalagmite sia cresciuta sopra i sedimenti.

Tuttavia, questa interpretazione è controversa. Nessuno ha trovato alcuna prova di un rit0 cerimoniale umano così antico. Inoltre, mancano alcune dita delle mani e dei piedi. “Se i corpi completi fossero stati gettati lì dentro, ci si aspetterebbe di vederne ogni pezzo”, ha detto Stringer. “Ma non è così. Un sacco di parti scheletriche sembrano mancare”.

Yolanda Fernández-Jalvo e Peter Andrews, rispettivamente dei Musei di Storia Naturale di Madrid e Londra, suggeriscono l’assenza di quelle piccole ossa si spieghi meglio assumendo che i corpi provenivano da un sistema di grotte e furono trasportati lì dalle inondazioni. Le dita di mani e piedi sarebbe andate dunque perdute durante gli spostamenti degli scheletri nella fossa, dove la stalagmite forse si era già formata.

Tuttavia, Juan Luis Arsuaga, l’archeologo che dirige gli scavi, respinge questa analisi: “È possibile dire che quei fossili erano dei primi Neandertal o dare loro un altro nome, non importa. Io preferisco dare un nome diverso”. Arsuaga ha però ammesso che i 600.000 anni di età dati dal suo team forse sono troppi: “Stiamo lavorando su questo”, ha detto.

The Guardian

Natural History Museum

Evolutionary Anthropology

Vedi anche:

La Sierra de Atapuerca

Chris Stringer parla dei Neandertal e dell’evoluzione umana



La più antica pittura rupestre

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Un disco rossiccio nel nord della Spagna è stato annunciato essere la prima pittura rupestre del mondo. Datata a più di 40.800 anni fa, venne dipinta da alcuni dei primi uomini moderni a raggiungere la penisola iberica oppure da uomini di Neandertal, vissuti in quella regione per oltre 200.000 anni.

(Pedro Saura)

(Pedro Saura)

(Pedro Saura)

“C’è una probabilità molto buona che si tratti di Neandertal”, dice Alistair Pike, archeologa dell’Università di Bristol, il cui team ha datato decine di pitture in 11 grotte nel nord della Spagna. Ma Lawrence Guy Straus, esperto dell’Università del New Mexico ad Albuquerque, la chiama “una speculazione molto azzardata”, perché si basa su una singola datazione che potrebbe sovrapporsi con l’occupazione umana.

Finora, la grotta di Chauvet detiene il titolo delle pitture rupestri più antiche, datate a circa 39.000 anni, ma la cosa è controversa in quanto la valutazione si basa sulla datazione al radiocarbonio di pigmenti di carbone, che sono sensibili alla contaminazione di altre fonti di carbonio.

L’arte rupestre è notoriamente di difficile datazione perché, a differenza di ossa e strumenti che si possono datare direttamente o grazie a ossa vicine, “non è associata ad altro che se stessa”, dice Pike.

Per risolvere questo problema, la squadra di Pike ha datato le patine di calcite che lentamente si sono formate sulle pitture usando il rapporto tra uranio e torio.

Su 50 patine provenienti da 11 grotte, la più antica è quella del disco nella grotta di El Castillo, risalente ad almeno 40.800 anni. Quell’immagine, così come altri dischi leggermente più recenti di Castillo e un’immagine dalla grotta di Altamira, sarebbe stata dipinta all’incirca quando i primi uomini moderni, della cultura Aurignaziana, raggiunsero la penisola iberica.

Questi dischi rossi a Corredor de los Puntos, El Castillo, risalgono tra i 34.000 e i 36.000 anni fa (Pedro Saura)

La squadra di Pike vede tendenze artistiche evolversi nei diversi periodi. I primi europei dipinsero semplici forme geometriche, mentre i loro successori facevano dei disegni più complessi come mani e figure – senza che questo esprima comunque un giudizio sull’arte o sulle capacità cognitive di Neandertal o esseri umani, avverte Pike.

Altamira, 35.000 anni fa (Pedro Saura)

Altamira, 20.000 anni dopo (Pedro Saura)

I segni rossi dietro i cavalli nella grotta di Tito Bustillo hanno più di 29.000 anni (Rodrigo De Balbín Behrmann)

Nature

Science

Intanto, l’archeologo Bryce Barker dice di aver trovato la più antica forma di arte rupestre in Australia e una delle più antiche al mondo: un’opera aborigena creata 28.000 anni fa nella grotta di Nawarla Gabarnmang.

Barker ha datato al radiocarbonio pigmenti di carbone. L’archeologo avrebbe inoltre trovato prove che la grotta sarebbe stata occupata a partire da 45.000 anni fa.

La sua ricerca è stata pubblicata sul Journal of Archaeological Science.

(AP Photo/Bryce Barker)

Art Daily

Associated Press


“L’anello mancante” risale a 7-13 milioni di anni fa

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Negli ultimi 45 anni, i genetisti avevano suggerito che gli antenati degli odierni uomini e scimpanzé si separarono all’incirca dai 4 ai 6 milioni di anni fa, mentre gli antenati dei gorilla si staccarono circa 7 – 9 milioni di anni fa. Tuttavia non ci sono praticamente fossili di scimpanzé e gorilla, e quindi queste date sono state calcolate contando il numero di differenze di sequenza del DNA tra le tre specie e dividendo tale cifra con un presunto “tasso di mutazione” per i primati.

Il problema è che spesso gli scienziati calcolano il tasso di mutazione usando le datazioni dei fossili di altre specie di primati, e poi lo applicano anche alle scimmie antropomorfe africane e agli esseri umani. Questo approccio è soggetto a errori poiché si basa sulla precisione dell’età dei fossili e presuppone che i tassi di mutazione siano simili tra le specie di scimmie antropomorfe.

(Kevin Langergraber)

Ma c’è un modo migliore, dice l’antropologo molecolare Linda Vigilant dell’Istituto di antropologia evolutiva Max Planck di Lipsia. Invece di guardare i fossili e gli altri primati, dice, i ricercatori possono utilizzare i dati dei recenti sequenziamenti del genoma degli esseri umani, che stima più precisamente il numero medio delle mutazioni avvenute nel tempo. Queste nuove stime possono poi essere utilizzate dagli scienziati per calcolare da quanto tempo si siano divise le linee evolutive. Fino a poco tempo fa, però, i ricercatori non avevano campioni di DNA di abbastanza scimpanzé e altri primati per poter calcolare con precisione questi tempi di generazione.

Ora, dopo un decennio di analisi dei modelli di riproduzione negli scimpanzé e gorilla in Africa, Vigilant e Kevin Langergraber – primatologo all’Università di Boston – dicono di avere i dati di cui avevano bisogno.

Per ottenere i tassi di mutazione, il team ha diviso il numero di mutazioni tra genitori e prole (per questo è stato analizzato il DNA dei coproliti raccolti) con i tempi di generazione appena calcolati. I ricercatori hanno così ottenuto un alto e un basso tasso di mutazione all’anno per ogni specie – i tassi sono più lenti di quanto precedentemente stimato utilizzando i fossili.

Il risultato è che gli esseri umani e gli scimpanzé si sono divisi prima del previsto: almeno dai 7 agli 8 milioni di anni fa, ma forse già 13 milioni di anni fa. La scissione tra gorilla e il lignaggio che portò a esseri umani e scimpanzé avvenne inveece tra gli 8 e i 19 milioni di anni fa. Queste datazioni sono così ampie perché, spiega Vigilant, presuppongono che i tassi di mutazione visti oggi siano stati costanti nel tempo in tutte e tre le specie.

La domanda chiave che rimane, dunque, è se i tassi di mutazione siano stati più veloci nel passato.

Science

Negli ultimi anni, diversi ritrovamenti sono stati spacciati dalla stampa come “anello mancante”, ma nessuno di questi lo era effettivamente.

Ida, scheletro della dimensione di un gatto scoperto in Germania, risale a 47 milioni di anni fa.

L’Ardipithecus ramidus, noto come “Ardi”, è un ominide di 4.4 milioni di anni.

L’Australopithecus sediba sarebbe una forma di transizione tra l’Australopithecus africanus e l’Homo habilis o l’Homo erectus, ed è stato datato a quasi 2 milioni di anni fa.


Sequenziato il genoma dell’uomo di Denisova

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Un team internazionale di scienziati ha sequenziato il genoma completo dell’Uomo di Denisova, un parente estinto degli uomini moderni, grazie a una nuova tecnica sviluppata da Matthias Meyer, ricercatore presso il Max Planck Institut di antropologia evolutiva di Lipsia, in Germania.

La sequenza è così completa che i ricercatori hanno ora una descrizione accurata, come se fosse una persona vivente. È stato rivelato, ad esempio, che la ragazza aveva occhi e pelle marroni (“brown“) e capelli castani. “Nessuno pensava che avremmo ottenuto un genoma umano arcaico di tale qualità”, afferma Meyer. “Tutti ne sono rimasti scioccati. Me incluso.”

Matthias Meyer al lavoro (MPI for Evolutionary Anthropology)

Tale precisione ha permesso alla squadra coordinata dal paleontologo Svante Pääbo di confrontare il genoma nucleare di questa ragazza, che viveva nella grotta di Denisova in Siberia più di 50.000 anni fa, direttamente coi genomi delle persone viventi, producendo un catalogo “quasi completo” del piccolo numero di cambiamenti genetici che ci rendono diversida loro.

Ironicamente, questo genoma significa che gli uomini di Denisova, che sono rappresentati nella documentazione fossile solo da un piccolo osso di mignolo e due denti, sono geneticamente molto più noti di ogni altro umano antico tra cui i Neanderthal – di cui ci sono centinaia di campioni.

“Meyer e il consorzio hanno rivoluzionato il campo del DNA antico – di nuovo”, dice Beth Shapiro, biologo evoluzionista all’Università della California di Santa Cruz, che non fa parte del team. Sarah Tishkoff, genetista dell’evoluzione presso l’Università della Pennsylvania è d’accordo: “Riuscirà davvero a far avanzare il settore”.

Il metodo Matthias

Finora i genomi ottenuti erano di qualità troppo bassa per produrre un elenco affidabile delle differenze. Parte del problema era che il DNA antico è frammentario, e la maggior parte si divide in singoli filamenti dopo l’estrazione dalle ossa.

L’innovazione di Meyer è stato l’aver sviluppato un metodo per sequenziare i singoli filamenti di DNA, invece dei doppi filamenti, come si è soliti fare. Legando speciali molecole alle estremità di un singolo filamento, il DNA antico veniva tenuto in posizione mentre gli enzimi copiavano la sua sequenza. Il risultato è stato l’aver aumentato la quantità di DNA sequenziata da 6 a 22 volte in più – il tutto partendo da un piccolo campione di 10 milligrammi del dito. La squadra è stata in grado di coprire il 99,9% delle posizioni dei nucleotidi mappabili nel genoma almeno una volta, e più del 92% dei siti almeno 20 volte, il che è considerato un punto di riferimento per identificare i siti in modo affidabile. Circa la metà delle 31 copie provengono dalla madre della ragazza e metà dal padre, producendo un genoma “di qualità equivalente a un recente genoma umano”, dice il paleoantropologo John Hawks dell’Università del Wisconsin di Madison, non facente parte della squadra.

La replica dell’osso (Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology)

Risultati

Dalle analisi del genoma, risulta che le popolazioni di Denisova e Sapiens si divisero tra i 170.000 e i 700.000 anni fa.

Secondo un altro calcolo, la diversità genetica dei Denisova, già bassa, si ridusse ancora di più 400.000 anni fa, riflettendo piccole popolazioni in quel momento. Al contrario, la popolazione dei nostri antenati apparentemente raddoppiò prima del loro esodo dall’Africa.

Un’altra stima, tutta da verificare, basata sulle “evoluzioni mancanti” del DNA ha rivelato che la ragazza sarebbe morta circa 80.000 anni fa. Se questa datazione – la prima prova che un fossile può essere direttamente datato a partire dal suo genoma – reggesse, sarebbe molto più antica delle date molto approssimative di 30.000 a più di 50.000 anni fa che sono state determinate con lo strato di sedimenti in cui vi erano i fossili di Denisova, Neandertal e esseri umani.

L’eredità

Il team dice che il nuovo genoma conferma i loro risultati precedenti: circa il 3% del genoma dei nativi della Papua Nuova Guinea proviene dagli uomini di Denisova, mentre gli Han e i Dai nella Cina continentale conservano solo una traccia del loro DNA.

Inoltre, il team ha determinato che i papuani hanno più DNA denisoviano nei loro autosomi (spesso ereditato equamente da entrambi i genitori) che nei loro cromosomi X (ereditati due volte più frequentemente dalla madre). Questo modello curioso suggerisce diversi scenari possibili, tra cui quello secondo cui gli uomini di Denisova maschi si incrociarono con le donne moderne, o che tali unioni furono geneticamente incompatibili, con la selezione naturale che eliminò alcuni dei cromosomi X, dice il co-autore David Reich, genetista della popolazione all’Università di Harvard.

Risultati inaspettati

Il nuovo genoma suggerisce anche un risultato strano. Per il team di ricerca, gli odierni asiatici orientali hanno più DNA di Neandertal degli europei. Ma la maggior parte dei fossili di Neandertal si trovano in Europa. Il paleoantropologo Richard Klein della Stanford University a Palo Alto, in California, definisce il risultato “particolare”.

A Lipsia ora i ricercatori sono tutti vogliosi di rispolverare i campioni fossili per testare il nuovo “metodo Matthias”. In cima alla lista di Pääbo ci sono i campioni di ossa di Neandertal, per cercare di produrre un genoma della qualità di quello di Denisova.

Science

Istituto Max Planck di Antropologia Evolutiva

Nel maggio 2010, il gruppo di Paabo aveva scoperto che tra l’1% e il 4% del DNA degli europei e asiatici, ma non degli africani subsahariani, deriva dai Neandertal. La conclusione era che gli esseri umani si incrociarono con i Neandertal a bassi livelli.

Solamente 7 mesi dopo, lo stesso gruppo aveva scoperto che un osso trovato nella grotta di Denisova non era né di un Neandertal né di un uomo moderno, sebbene le ossa di entrambe le specie erano state trovate nella grotta. La squadra aveva poi trovato del “DNA di Denisova” in alcuni asiatici sud-orientali, ipotizzando dunque un incrocio coi Sapiens probabilmente in Asia.


I volti delle mummie

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Le mummie conservate alla Università canadese di McGill sono state esposte per più di 100 anni. Ora però, per la prima volta, le loro facce sono state esaminate più da vicino.

Un team di scienziati del Montreal Neurological Institute ha usato tomografie computerizzate per creare ricostruzioni 3D dei volti delle mummie.

(McGill University)

(McGill University)

Ricreazione dei tre crani (McGill University)

Ricreazione dei tre crani (McGill University)

Le ricostruzioni facciali delle tre mummie – un giovane uomo, una giovane donna, e una donna anziana – sono stati presentati al Redpath Museum, di proprietà dell’università.

(McGill University)

Il giovane tebano (McGill University)

(McGill University)

(McGill University)

La giovane donna, di status elevato (McGill University)

La giovane donna, di status elevato (McGill University)

(McGill University)

(McGill University)

La donna più anziana, morta tra i 30 e i 50 anni di età (McGill University)

La donna più anziana, morta tra i 30 e i 50 anni di età (McGill University)

“Gli esseri umani sono stati fisicamente più o meno simili negli ultimi 2.000 anni”, dice l’antropologo della Western University Andrew Wade. “Questo non vuol dire che l’evoluzione abbia smesso di funzionare su di noi, ma il lasso di tempo di 2.000 anni è solo una goccia nel mare per notare dei cambiamenti fisici evidenti e [comunque] ne abbiamo ridotto la necessità adattandoci culturalmente”.

McGill University

Discovery


Analizzato il “Cuor di Leone” di Riccardo I d’Inghilterra

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Lo chiamavano Cuor di Leone – un nome diventato la personificazione del coraggio in battaglia. Più di otto secoli dopo la morte di Riccardo I d’Inghilterra, gli scienziati hanno rivelato i segreti del suo cuore.

Riccardo I d'Inghilterra, in un ritratto 1841 realizzato da Merry-Joseph Blondel (wikipedia)

Riccardo I d’Inghilterra, in un ritratto 1841 realizzato da Merry-Joseph Blondel (wikipedia)

Re Riccardo combatté contro il sultano musulmano Saladino durante la terza crociata nel XII secolo. Ma al suo ritorno in Europa lo attendevano altre difficoltà, e trascorse gli ultimi anni della sua vita cercando di reprimere la rivolta nei suoi territori francesi.

Il 25 marzo 1199, durante l’assedio al castello di Châlus-Chabrol, venne trafitto alla spalla sinistra dal dardo di una balestra. Riccardo morì 12 giorni dopo, probabilmente a causa di un’infezione nella ferita.

Le sue viscere furono rimosse e conservate in una bara a Châlus, e il suo corpo venne inviato all’Abbazia di Fontevrault. Il suo cuore fu però imbalsamato in modo da conservarlo per i 500 chilometri di viaggio fino alla Cattedrale di Notre Dame a Rouen, la base delle forze inglesi in Normandia all’epoca.

Durante uno scavo della cattedrale nel 1838, lo storico Achille Deville trovò i resti del cuore all’interno di un reliquiario di piombo oggi conservato nel Museo di Storia Naturale di Rouen. Un’iscrizione latina sul coperchio recita: “Qui è il cuore di Riccardo, re d’Inghilterra”.

Deville e altri avevano esaminato il contenuto del reliquiario, ma finora i resti non erano mai stati sottoposti ad una rigorosa analisi forense.

(Erich Lessing / akg-images)

(Erich Lessing / akg-images)

Philippe Charlier, un patologo forense e antropologo presso la Raymond Poincaré University Hospital di Garches, aveva scoperto che le ossa sacre ritenute appartenere a Giovanna d’Arco erano in realtà di una mummia egizia. Aveva anche identificato una testa anonima conservata come quella di Enrico IV di Francia, assassinato nel 1610 e decapitato postumo durante la Rivoluzione francese.

Le analisi al microscopio hanno identificato granuli di polline di mirto, menta e altre note piante per l’imbalsamazione, così come pioppo e campanula, che erano in fiore quando il re morì.

Sono state inoltre rilevate alte concentrazioni di calcio, suggerendo che potrebbe essere stata usata calce come conservante, e creosoto e franchincenso, entrambi utilizzati per la conservazione dei tessuti.

“Siamo sorpresi di aver trovato così tante informazioni”, dice Charlier. Secondo lo scienziato, questa è la prima analisi forense di un cuore imbalsamato mai fatta e la prima prova fisica di un’antica imbalsamazione usando il franchincenso.

“Ciò dimostra che anche i cristiani praticavano l’imbalsamazione”, afferma Stephen Buckley, un chimico archeologico presso l’Università di York. “La Chiesa ha cercato di minimizzare l’uso dell’imbalsamazione per i leader religiosi e i reali” in passato a causa delle origini pagane della pratica, aggiunge. Ma i testi medievali mostrano che molti membri dell’élite della società avrebbero potuto aspettarsi un trattamento simile.

Nature


Scoperto il primo ibrido Neandertal-Sapiens?

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Un frammento di mandibola scoperto a Riparo Mezzena nel 1957 potrebbe appartenere al primo ibrido Neandertal – Sapiens mai scoperto finora. È quanto affermato da un gruppo di ricercatori italiani e francesi in un nuovo studio pubblicato sulla rivista Plos One.

La ricostruzione di una femmina di Homo neanderthalensis. Fotografia di Joe McNally (Joe McNally)

La ricostruzione di una femmina di Homo neanderthalensis. Fotografia di Joe McNally (Joe McNally)

La mandibola fossile di Riparo Mezzena (PlosOne)

La mandibola fossile di Riparo Mezzena (PlosOne)

La mandibola fu scoperta alla fine degli anni Cinquanta a Riparo Mezzena, una cavità dei Monti Lessini, in associazione con strumenti in selce riferibili alla cultura musteriana, cioè quella prodotta dai Neandertal, e secondo la datazione al radiocarbonio eseguita qualche anno fa risale a un periodo compreso tra i 35 e i 40 mila anni fa. Un momento cruciale per la comprensioni dei diversi destini evolutivi delle due specie in quanto coincide, in Europa, alla comparsa dei sapiens e alla scomparsa dei Neandertal.

Il lavoro dei ricercatori, tra cui Laura Longo, ricercatrice dei Musei Civici Fiorentini, l’archeologo Paolo Giunti, dell’Istituto Italiano di Preistoria e protostoria, David Caramelli e Martina Lari, dell’università di Firenze, e Silvana Condemi, del Consiglio Nazionale delle Ricerche francese a Marsiglia, si è concentrato sul confronto morfologico della mandibola con altri reperti neandertaliani europei dello stesso periodo e altri appartenenti a H. sapiens, con il fine di verificare e valutare eventuali somiglianze fisiche. Il mento, infatti, è una di quelle caratteristiche che ben differenziano le due specie: se nei Neandertal il mento è quasi assente, nell’uomo anatomicamente moderno si fa invece sempre più marcato. Nel frammento di Riparo Mezzena queste differenze non sono invece così evidenti, visto che è presente un lieve accenno di mento.

Secondo gli autori, il fatto che la mandibola presenti dei tratti molto vicini a quelli di Homo sapiens potrebbe rafforzare ulteriormente l’idea che in Europa, in quel periodo, fosse già in atto l’ibridazione fra le due specie, e quindi che i Neandertal non sarebbero scomparsi improvvisamente ma anzi sarebbero stati gradualmente “assimilati” dai nuovi arrivati sapiens.

La mandibola di Riparo Mezzena sarebbe quindi una delle prime testimonianze dirette degli incontri sessuali tra gli ultimi neandertaliani e i primi uomini moderni giunti in Europa. Le analisi genetiche che sono state condotte sul DNA mitocondriale estratto dalla mandibola, hanno dimostrato infatti l’appartenenza del reperto alla specie neandertaliana, e dato che il DNA mitocondriale si trasmette solo per via materna, di madre in figlio, l’accenno di mento descritto dai ricercatori nel loro studio potrebbe appartenere a un ibrido nato dall’unione di una femmina Neadertal e di un maschio sapiens.

National Geographic

Plos One


L’Australopithecus sediba: congiunzione tra Australopithecus e Homo?

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Secondo un nuovo studio pubblicato su Science, lo scheletro dell’Australopithecus sediba è caratterizzato dai tipici tratti dell’Australopithecus e dal primo Homo, e potrebbe essere stato un’evoluzione tra le due specie.

Secondo un’altra interpretazione, questi individui potrebbero però essere una tarda forma di Australopithecus africanus, e non una nuova specie.

Presentati nel 2010, i fossili di questo ominide erano stati scoperti in una grotta a Malapa, in Sudafrica, e risalgono a circa 1.98 milioni di anni fa. Non si tratta dunque del famoso “anello mancante” (vedi: “L’anello mancante” risale a 7-13 milioni di anni fa).

Da sinistra: un Homo sapiens, un Au. sediba, e un Pan troglodytes (Lee R. Berger and the University of the Witwatersrand)

Da sinistra: un Homo sapiens, un Au. sediba, e un Pan troglodytes (Lee R. Berger and the University of the Witwatersrand)

Dalla scoperta, il paleoantropologo Lee Berger dell’Università di Witwatersrand e i suoi collaboratori hanno iniziato un ciclo di studi e analisi dell’anatomia e del contesto geologico, culminato la settimana scorsa con la pubblicazione di sei articoli sulla prestigiosa rivista Science.

Gli studi sui denti, la mascella, gli arti e la colonna vertebrale dell’A. sediba hanno messo in luce lo strano mix di di tratti anatomici che componeva l’anatomia dell’ominide, in parte tipici del genere Homo e in parte caratteristici delle prime australopitecine. Questi risultati faranno dell’A. sediba il nuovo punto di riferimento per tutti coloro che cercano di capire dove, come e quando il nostro genere si è evoluto.

Ricostruzione dell'Australopithecus sediba (Lee R. Berger and the University of the Witwatersrand)

Ricostruzione dell’Australopithecus sediba (Lee R. Berger and the University of the Witwatersrand)

I denti

L’analisi dentale, condotta da Joel Irish della John Moores University di Liverpool e altri studiosi, ha scoperto molte similitudini tra l’Australopithecus sediba e l’Australopithecus africanus (vissuto in Sud Africa circa 3 milioni di anni fa), ma anche caratteristiche possedute dai uno dei primi rappresentanti del nostro genere, l’Homo abilis.

Anche Darryl de Ruiter della Texas A&M University che ha eseguito l’analisi della mandibola, sostiene che l’Australopithecus sediba sia una specie distinta, in contrasto con alcune precedenti affermazioni secondo cui i fossili di Malapa non rappresenterebbero altro che una forma tardiva di africanus.

Secondo Berger, le caratteristiche dentali dell’Australopithecus sediba lo rendono “il miglior candidato” come primo antenato del genere Homo anche se, sottolinea, questa connessione sarà comunque subordinata al ritrovamento di fossili più completi di altri ominidi.

(Science/AAAS)

(Science/AAAS)

Lo scheletro

Altri aspetti dello scheletro conservano invece un’anatomia più arcaica, come per esempio le braccia, spiega Steven Churchill della Duke University, che possiedono ancora anatomia e proporzioni adatte all’arrampicata sugli alberi. L’Australopithecus sediba probabilmente era uno scalatore “di qualche tipo”, spiega Berger, che osserva anche che “arrampicarsi sugli alberi non doveva essere l’unica opzione possibile per un ominide che viveva in un paesaggio carsico”, segnato da doline e grotte.

L’antropologo dell’ Università di Zurigo Peter Schmid descrive invece il torace di A. sediba con la tipica forma svasata a imbuto dei primi australopitechi: il suo torace era quindi più simile a quello dei primati attuali che a quello dell’uomo.

Curiosamente, le parti meno conservate della gabbia toracica inferiore hanno invece un aspetto molto più simile a quello umano. Nel suo studio Scott Williams, della New York University, sostiene infatti che la colonna vertebrale dell’Australopithecus sediba fosse simile a quella dell’Homo erectus, con una porzione inferiore lunga e flessibile e leggermente curvata, la tipica conformazione data dalla camminata eretta.

Comunque, anche se il sediba era chiaramente bipede, non camminava affatto come noi. Secondo Jeremy De Silva (Boston University), l’osso del tallone dello scheletro femminile indica che durante la camminata il piede ruotava verso l’interno, con il bordo esterno che toccava il terreno insieme al tallone. “Toccare il suolo col bordo esterno del piede provoca una rotazione rapida ed eccessiva che schiaccia l’interno del piede a terra,” dice Berger, “una reazione a catena per mantenere l’equilibrio che coinvolge tibia, femore e il tronco”. Nessun altro ominide camminava così, il che lascia intendere che il modo in cui gli esseri umani usino i loro piedi non sia il risultato di un costante miglioramento evolutivo, ma soltanto l’esito delle diverse possibili alternative che si sono presentate durante l’evoluzione del nostro genere.

Lo strano modo di camminare di A. sediba, dice Berger, “potrebbe rappresentare una sorta di compromesso per un piede con caratteristiche adatte sia alla camminata che all’arrampicata sugli alberi”.

(Science/AAAS)

(Science/AAAS)

Una lunga polemica

La sua complessa anatomia rende l’Australopithecus sediba un vero e proprio mosaico di tratti arcaici e tratti moderni, ma i particolari in cui assomiglia di più al genere Homo sono dei reali indicatori di un stretto rapporto evolutivo, o sono semplicemente caratteristiche evolute in maniera indipendente nei due generi? Mentre pochi scienziati ritengono che la questione sia prossima alla soluzione, Berger appare più ottimista. “Secondo me l’A. sediba mostra così tanti tratti simili ad Homo che per lo meno deve essere considerato come uno dei possibili antenati del nostro genere”.

Questa ipotesi deve comunque scontrarsi con la difficoltà, spiega Berger, di abbandonare alcune “nostalgiche” teorie e con il fatto che i resti scheletrici così ben conservati di A .sediba “si possono confrontare solamente con un record fossile frammentario e dissociato, composto da un modesto numero di resti, molti dei quali sono stati grossolanamente gettati nel grande calderone del genere Homo”. Berger tra l’altro esclude che la mandibola ritrovata in Etiopia e datata 2.33 milioni di anni fa possa rappresentare veramente il più antico fossile del genere Homo, e anzi sostiene che tali reperti non impediscono all’A. sediba di concorrere allo stesso ruolo. La maggior parte dei ricercatori, tuttavia, è concorde sul fatto che la mascella etiope sia davvero Homo e che la strada che intraprese il nostro genere sia iniziata ben prima della comparsa del sediba.

Berger dubita che le nuove ricerche riusciranno a convincere gli studiosi in disaccordo con lui, però afferma che “in tutto il corpo, dalla testa ai piedi A. sediba possiede un tale numero di caratteri condivisi con i diversi membri del genere Homo, tra cui H. erectus, Neanderthal, e noi sapiens, che il collegamente evolutivo è evidente”.

John Hawks, paleoantropologo della University of Wisconsin ricorda che i dettagli dentali sono la miglior prova di una possibile connessione tra gli ominidi di Malapa e i primi Homo. “I nuovi studi sulle caratteristiche comuni dei denti e della mandibola indicano con chiarezza che A. sediba e A. africanus sono un taxon fratello di Homo”.

Un quadro complesso

Nonostante ciò Hawks mantiene una certa cautea, “Penso che la storia potrebbe essere ancora più complicata”, sottolineando quanto poco si sappia delle prime specie Homo, e “alla luce anche di quanto sappiamo dei mescolamenti fra specie più recenti, come i Neanderthal, è possibile che anche tra i primi Homo e la ultime australopitecine ci siano stati degli incroci”.

Indipendentemente da cosa sia l’Australopithecus sediba, i suoi resti lanciano un importante messaggio sulla prudenza che si dovrebbe avere nell’interpretazione di frammenti fossili. “Questo mosaico anatomico è il messaggio più importante che ci arriva da questo sito. Ci dice che quando si trova un frammento che si presenta come Homo, non ci si può assolutamente aspettare che anche il resto dello scheletro sarà simile a Homo”, dice Hawks. “Nessun singolo frammento potrebbe apparire più Homo di questi scheletri, eppure questi stessi resti possiedono molte caratteristiche che non vi assomigliano per niente. Ed è quello che ci aspettiamo da un genere in evoluzione”.

Il paleoantropologo Rick Potts (Smithsonian National Museum) è incerto sulla reale importanza di A. sediba nell’origine del genere Homo, soprattutto perché i primi fossili di Homo sono più vecchi di centinaia di migliaia di anni, anche se osserva che la particolare combinazione di caratteristiche nell’A. sediba “è sorprendente”. Questo è quello che rende così difficile il posizionamento di questi ominidi, dice Potts: “Per quello che ne sappiamo, penso che l’Australopithecus sediba si debba vedere come un convincente esempio dell’evoluzione altamente sperimentale avvenuta intorno all’origine del genere Homo”. In definitiva, dice, la determinazione del ruolo dell’Australopithecus sediba “dipenderà dalla discussione se sia il suo modello morfologico completo a posizionarlo in un qualche punto della storia evolutiva umana o se siano solo alcuni tratti isolati del suo scheletro”.

L’ominide “è così speciale nel suo complesso”, conclude, “ che potrebbe generare qualche ripensamento sulla classificazione dei resti umani fossili in generale e sul loro posizionamento nell’albero evolutivo”.

National Geographic

Science

Vedi: Una nuova specie ominide: l’Australopithecus sediba



La storia genetica degli europei comincia solo nel 4.500 a.C.

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Uno studio pubblicato su Nature Communications ha fornito la prima storia genetica dettagliata dell’Europa moderna, suggerendo che gli Europei sono un popolo più giovane di quello che pensavamo.

Il DNA recuperato da scheletri antichi rivela che il corredo genetico dell’Europa moderna si è formato intorno al 4.500 a.C., alla metà del Neolitico, e non dai primi agricoltori che sono arrivati ​​nella zona circa 7.500 anni fa o dai precedenti gruppi di cacciatori-raccoglitori.

“La genetica dimostra che in quell’epoca qualcosa fece scomparire lo specifico patrimonio genetico delle precedenti popolazioni”, ha detto Alan Cooper, direttore del Centro australiano per il DNA antico dell’Università di Adelaide, dove è stata eseguita la ricerca. “Tuttavia, non sappiamo cosa sia successo e perché, e [la metà del Neolitico] non era stata precedentemente identificata come [un tempo] di grandi cambiamenti”. “Questa popolazione si muove all’incirca tra il 4.000 e il 5.000 a.C., ma da dove proviene rimane un mistero, dato che non vediamo niente di simile nelle zone circostanti l’Europa”.

Un gruppo di uomini tedeschi negli anni '20 (Hans Hildenbrand, National Geographic)

Un gruppo di uomini tedeschi negli anni ’20 (Hans Hildenbrand, National Geographic)

Nello studio, Cooper e i suoi colleghi hanno estratto il DNA mitocondriale, che i figli ereditano solo dalla madre, da denti e ossa di 39 scheletri trovati nella Germania centrale. Gli scheletri hanno un’età compresa tra i 7.500 e i 2.500 anni.

Il team si è concentrato su un gruppo di lignaggi mitocondriali strettamente legati – mutazioni nel DNA mitocondriale che sono simili tra loro – noti come aplogruppo H, che è portato da quasi la metà degli europei moderni (fino al 45%).

Non è chiaro come questo aplogruppo divenne dominante in Europa. Secondo alcuni scienziati si diffuse in tutto il continente in seguito a un aumento della popolazione dopo la fine dell’ultima era glaciale circa 12.000 anni fa. Ma i nuovi dati dipingono un quadro diverso: più che un singolo o pochi eventi di migrazione, l’Europa è stata occupata più volte, a ondate, da gruppi diversi, da diverse direzioni e in tempi diversi.

Cacciatori e agricoltori

I primi esseri umani moderni a raggiungere l’Europa arrivarono dall’Africa dai 35.000 ai 40.000 anni fa. A partire dai 30.000 anni fa erano diffusi in tutta l’area, mentre i loro cugini, i Neanderthal, scomparvero. Quasi nessuno di questi primi cacciatori-raccoglitori portava l’aplogruppo H nel loro DNA.

Circa 7.500 anni fa, all’inizio del Neolitico, un’altra ondata di umani si espanse in Europa, questa volta dal Medio Oriente. Portavano nei loro geni una variante dell’aplogruppo H, e nelle loro menti la conoscenza dell’agricoltura. Gli archeologi chiamano questi primi agricoltori dell’Europa centrale la cultura della ceramica lineare (LBK), così chiamata perché le loro ceramiche spesso avevano decorazioni lineari. Le prove genetiche dimostrano che la comparsa degli agricoltori LBK e i loro aplogruppi H unici coincisero con una drastica riduzione dell’aplogruppo U – l’aplogruppo dominante tra i cacciatori-raccoglitori che allora vivevano in Europa.

“I risultati mettono un punto fermo nel vecchio dibattito tra gli archeologi”, ha detto Spencer Wells, co-autore della ricerca. “La sola archeologia non può determinare se i movimenti culturali – come ad esempio un nuovo stile di ceramica o, in questo caso, l’agricoltura – siano stati accompagnati da movimenti di persone. In questo studio mostriamo che i cambiamenti nei reperti archeologici europei sono accompagnati da cambiamenti genetici, suggerendo che i cambiamenti culturali furono accompagnati dalla migrazione di persone e del loro DNA”.

Il gruppo LBK e i suoi discendenti ebbero molto successo e si diffusero rapidamente in tutta Europa. “Diventarono la prima cultura paneuropea, diciamo”, ha detto Cooper.

Dato il loro successo, sarebbe naturale pensare che i membri della cultura LBK furono dei significativi antenati genetici di molti europei moderni. Ma l’analisi genetica del team ha rivelato una sorpresa: circa 6.500 anni fa, a metà del Neolitico, la cultura LBK venne essa stessa rimpiazzata. I loro tipi di aplogruppo H improvvisamente divennero molto rari, e furono sostituiti da popolazioni con un diverso insieme di variazioni dell’aplogruppo H.

I nostri antenati

I dettagli di questo “turnover genetico” sono oscuri. Gli scienziati non sanno ciò che lo causò, né da dove venissero i nuovi colonizzatori. “Tutto quello che sappiamo è che i discendenti dei contadini LBK scomparvero dall’Europa centrale circa nel 4.500 a.C., aprendo la strada all’ascesa di popolazioni provenienti da altrove”, ha detto Cooper.

“Alla fine del V millennio ci sono stati un sacco di cambiamenti nella documentazione archeologica”, spiega Peter Bogucki, archeologo alla Università di Princeton non coinvolto nello studio, ma esperto delle prime società agricole in Europa. “Ci sono state grandi trasformazioni all’interno dell’Europa centrale che non sono stati ben spiegate”. Bogucki pensa che il cambiamento climatico sia stato un fattore della variazione genetica in Europa, ma non l’unica causa.

Una cosa che è evidente dai dati genetici è che quasi la metà degli europei moderni possono far risalire le loro origini a questo misterioso gruppo. “Nel 4.500 a.C. circa, iniziamo a vedere una diversità e una composizione del patrimonio genetico che cominciano ad assomigliare a quelle della moderna Europa [centrale]“, ha aggiunto Cooper. “Questa composizione verrà poi modificata dalle successive culture che arrivano, ma è la prima volta in cui si vede qualcosa di simile alla moderna composizione genetica europea”.

Qualunque sia stato il motivo della sostituzione “genetica” della prima cultura paneuropea, Cooper vuole saperne di più. “Successe qualcosa di importante”, ha detto, “e ora la caccia è per scoprire cosa sia stato”.

National Geographic

Nature

Università di Adelaide

Negli ultimi anni, erano state diverse le ricerche che andavano nella direzione di questo studio.

L’università di Adelaide aveva studiato il passaggio dai cacciatori-raccoglitori agli agricoltori nel 2010.


Il più antico tumore del mondo

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Il primo caso accertato di un tumore osseo benigno è stato scoperto nella costola di un giovane Neandertal vissuto circa 120.000 anni fa nell’odierna Croazia. Il frammento osseo, che proviene dal famoso sito archeologico della Grotta di Krapina, contiene di gran lunga il primo tumore osseo mai identificato nella documentazione archeologica.

I tumori ossei sono eccezionalmente rari nella documentazione fossile e archeologica della preistoria umana: i primi esempi finora noti risalivano tra i 1.000 e i 4.000 anni fa. I tumori ossei primitivi sono rari nelle popolazioni moderne, perciò trovarne uno in un fossile così vecchio è una scoperta unica.

(L. Mjeda)

(L. Mjeda)

(University Hospital Zagreb)

(University Hospital Zagreb)

Da una radiografia e una scansione a tomografia computerizzata, i ricercatori hanno identificato una neoplasia displastica fibrosa – oggi la forma più comune di tumore osseo benigno nell’uomo – situata sul frammento della costola sinistra del Neandertal, probabilmente un ragazzo.

Anche se morto giovane, e anche se la displasia fibrosa è un disturbo dello sviluppo di ossa, non ci sono altri fossili attribuibili a questo individuo, e dunque non ci sono prove sufficienti per determinare se questo abbia o no contribuito alla causa della sua morte, dice la dottoressa Janet Monge.

(University of Vienna)

(University of Vienna)

La conferma di questo tumore, secondo Monge, può avere implicazioni per gli studiosi che studiano il rapporto tra Neandertal e uomo moderno. “Questo tumore può fornire un altro legame tra Neandertal e popoli moderni, collegamenti attualmente rinforzati da prove genetiche e archeologiche. Parte della nostra ascendenza è infatti comune ai Neandertal: crescono allo stesso modo le nostre ossa, i denti e condividiamo le stesse malattie”.

(Alamy Images)

(Alamy Images)

Università della Pennsylvania

PLoS ONE


Il più antico DNA di un antenato umano pone nuovi interrogativi

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Un altro genoma antico, un altro mistero. Il DNA raccolto ad Atapuerca, in Spagna, da un femore di 400.000 anni ha rivelato un collegamento inaspettato tra gli hominini dell’epoca in Europa e l’enigmatica popolazione dei Denisoviani, vissuti molto più recentemente nella Siberia sudoccidentale.

Il DNA, che rappresenta la sequenza hominine più antica mai pubblicata, ha lasciato i ricercatori confusi poiché la maggior parte di loro credeva che le ossa sarebbero somigliate di più ai Neandertal che ai Denisoviani. “Non è quello che mi aspettavo; non è quello che chiunque si sarebbe aspettato”, dice Chris Stringer, paleoantropologo al Natural History Museum di Londra, non coinvolto nello studio.

Il femore da Sima de los Huesos (Nature)

Il femore da Sima de los Huesos (Nature)

Posizione di Sima de los Huesos (giallo) e dei siti che hanno portato a DNA di Neandertal (rosso) e di Denisova (blu) (Nature)

Posizione di Sima de los Huesos (giallo) e dei siti che hanno portato a DNA di Neandertal (rosso) e di Denisova (blu) (Nature)

Il fossile venne scavato negli anni ’90 in una profonda grotta del famoso sito spagnolo chiamato Sima de los Huesos (‘Pozzo delle ossa’). Questo femore e i resti di oltre due dozzine di hominini rinvenuti nel sito erano stati in precedenza attribuiti sia a prime forme di Neandertal, vissuti in Europa fino a 30.000 anni fa, sia all’Homo heidelbergensis, una popolazione genericamente definita di hominini da cui derivarono i Neandertal in Europa e forse gli esseri umani in Africa.

Ma un collegamento più vicino ai Neandertal che all’Uomo di Denisova non è la scoperta del team di Svante Pääbo, genetista molecolare del Max Planck Institut di antropologia evolutiva di Lipsia, in Germania. Il team ha sequenziato la maggior parte del genoma mitocondriale del femore. L’analisi filogenetica ha posto il DNA più vicino a quello dei Denisoviani rispetto a Neandertal o uomini moderni. “Questo fatto solleva più di una questione, più che una risposta”, dice Pääbo.

La scoperta dei ricercatori, pubblicata su Nature, non significa necessariamente che gli hominini di Sima de los Huesos siano più vicini ai Denisoviani, una popolazione vissuta a migliaia di chilometri e centinaia di migliaia di anni dopo, invece che ai più vicini Neandertal. Questo perché il genoma mitocondriale racconta la storia solo della madre di un individuo, e della sua madre e così via. Il DNA nucleare contiene invece materiale di entrambi i parenti (e dei loro antenati) e di solito fornisce una panoramica più accurata della storia di una popolazione. Ma questo non era disponibile dal femore.

Con questo avvertimento in testa, i ricercatori interessati all’evoluzione umana stanno cercando di spiegare questo collegamento sorprendente, e tutti sembrano avere una propria idea.

Uno scavo a Sima de los Huesos (Javier Trueba Madrid Scientific Films)

Uno scavo a Sima de los Huesos (Javier Trueba Madrid Scientific Films)

L'albero filogenetico (Nature)

L’albero filogenetico (Nature)

Pääbo nota che i genomi nucleari di Neandertal e Denisoviani, in precedenza pubblicati, suggeriscono che le due specie avessero un antenato comune vissuto fino a 700.000 anni fa. Secondo lui, gli hominini di Sima de los Huesos potrebbero rappresentare una popolazione fondatrice che una volta viveva in tutta l’Eurasia e generò i due gruppi. Entrambi potrebbero aver portato la sequenza mitocondriale vista nelle caverne. Ma questi lignaggi mitocondriali si estinguono quando una femmina non partorisce una figlia, quindi i Neandertal potrebbero avere semplicemente perso quella sequenza mentre sopravvisse nelle donne di Denisova.

“Ho la mia idea personale”, dice Stringer, che aveva in precedenza sostenuto che gli hominini di Sima de los Huesos fossero invece dei primi Neandertal. Stringer pensa che il genoma appena decodificato potrebbe provenire da un altro gruppo di hominini. Non lontano dalle caverne, i ricercatori hanno scoperto ossa di hominini di circa 800.000 anni fa che erano state attribuite a un hominine arcaico chiamato Homo antecessor, ritenuto un discendente europeo dell’Homo erectus. Stringer propone che l’Homo antecessor si sia incrociato con una popolazione antenata sia dei Denisoviani sia degli hominini di Sima de los Huesos, introducendo il lignaggio mitocondriale appena decodificato in entrambe le popolazioni.

Questo scenario, dice Stringer, spiega un’altra stranezza. All’interno dell’analisi che comprende i genomi nucleari di Neandertal e Denisoviani, il team di Pääbo suggerisce che l’Uomo di Denisova sembra essersi incrociato proprio con un misterioso gruppo hominine. La situazione sarà più chiara se il team di Pääbo riuscirà ad estrarre DNA nucleare dalle ossa degli hominini di Sima de los Huesos, cosa che gli scienziati sperano di fare in un anno circa.

(Nature)

(Nature)

Ottenere tali sequenze non sarà facile perché il DNA nucleare è presente nell’osso a livelli molto più bassi che il DNA mitocondriale. Lo stesso, parziale, genoma mitocondriale non è stato facile da ottenere: il team ha dovuto tritare quasi due grammi di ossa e si è basato su vari metodi tecnici e computazionali per sequenziare il DNA contaminato e danneggiato per farne un genoma. Per essere sicuri di aver identificato delle sequenze antiche genuine, hanno analizzato solo piccolissimi filamenti di DNA che contenevano modifiche chimiche tipiche del DNA antico.

Clive Finlayson, archeologo presso il Museo di Gibilterra, ritiene l’ultimo studio “originale e che fa riflettere”, e dice che ci sono state troppe idee sull’evoluzione umana derivate da campioni limitati e preconcetti. “La genetica, per me, non mente”, ha aggiunto.

Anche Pääbo ammette di essere rimasto confuso con quest’ultima scoperta: “La mia speranza è, ovviamente, non di portare disordine ma di fare chiarezza a questo mondo”.

Nature


I Neandertal seppellivano i loro morti

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Fu ritrovato più di un secolo fa in una grotta nel Sud-ovest della Francia, ma solo oggi, dopo un nuovo studio durato 13 anni, gli scienziati hanno avuto la conferma: l’uomo di Neandertal di La Chapelle-aux-Saints fu intenzionalmente seppellito.

La ricerca, diretta dal paleontologo William Rendu della New York University e pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, mostra che, intorno a 50 mila anni fa, i compagni del Neandertal morto scavarono una fossa e presero tutte le precauzioni per proteggere il suo corpo dagli animali saprofagi. La scoperta sembra confermare definitivamente una teoria a lungo oggetto di dibattito tra gli studiosi: che cioè i nostri “cugini” Neandertal fossero capaci di comportamenti complessi, come appunto seppellire i morti.

Una ricostruzione della sepoltura ritrovata a La Chapelle-aux-Saints (A. Dagli Orti/De Agostini/Getty Images)

Una ricostruzione della sepoltura ritrovata a La Chapelle-aux-Saints (A. Dagli Orti/De Agostini/Getty Images)

Negli ultimi anni il ritrovamento di una ventina di sepolture nell’Europa occidentale ha convinto la maggioranza degli studiosi ad abbracciare l’ipotesi. Ma le testimonianze provenienti dai siti più antichi venivano di solito trascurate “solo perché gli scavi erano stati effettuati molti anni fa”, spiega Francesco d’Errico, un archeologo dell’Università di Bordeaux non coinvolto nell’ultima ricerca. “Lo studio invece conferma che i pionieri della paleoantropologia fecero un ottimo lavoro, dati i mezzi con cui lavoravano”.

I due sacerdoti e lo scheletro

Il sito di La Chapelle-aux-Saints aveva sempre lasciato perplessi gli studiosi. Nel 1908 erano stati i due fratelli Bouyssonie, archeologi e preti cattolici, a ritrovare nella grotta uno scheletro di Neandertal vecchio di 50 mila anni. Subito i fratelli avevano ipotizzato che i resti fossero stati sepolti intenzionalmente. Ma la comunità scientifica non li prese mai completamente sul serio, sia perché mancavano informazioni precise sui loro metodi d’indagine, sia perché si temeva che la fede influenzasse – consciamente o no – le loro conclusioni scientifiche.

Tra il 1999 e il 2012 un’équipe di ricercatori francesi ha riesaminato il sito, concludendo che la depressione dove lo scheletro è stato trovato fu almeno in parte modificata in modo da creare una tomba. Inoltre, a differenza degli ossi di renna e di bisonte che pure erano presenti nella grotta, i resti del Neandertal erano quasi intatti e non mostravano danni dovuti all’esposizione alle intemperie o ai morsi di animali.

“Tutti questi elementi mostrano che i due gruppi di ossa hanno avuto una storia diversa. Gli ossi degli animali sono rimasti esposti all’aria a lungo, mentre i resti del Neandertal furono subito sepolti in modo da proteggerli da qualsiasi tipo di disturbo o di alterazione”, spiega Rendu. La sua équipe ha anche ritrovato frammenti di ossa appartenuti ad altri tre Neandertal (due bambini e un adulto) ma non è chiaro se anche loro siano stati sepolti.

Paul Pettitt, archeologo della Durham University, commenta che il nuovo studio “non solo dimostra che i Neandertal abbiano seppellito un morto a La-Chapelle-aux-Saint, ma fa nascere anche un’altra ipotesi: che cioè l’evoluzione della pratica della sepoltura sia cominciata con semplici modifiche di avvallamenti o buche naturali”.

La grotta di La Chapelle-aux-Saints (PNAS)

La grotta di La Chapelle-aux-Saints (PNAS)

La nascita della pietà

La scoperta francese sembra confermare un’ipotesi suffragata da diverse scoperte: i Neandertal sarebbero stati in grado di elaborare il pensiero simbolico e avrebbero sviluppato una ricca cultura. Ritrovamenti recenti – come quelli della grotta di Fumane, nel Veronese-  proverebbero che i nostri antichi cugini usavano pigmenti per decorarsi il corpo, indossavano gioielli fatti di penne e conchiglie colorate e forse sapevano persino dipingere.

Ma le testimonianze fossili de La Chapelle-aux-Saints mostrano che i Neandertal erano evoluti anche in un’altro senso: si prendevano cura dei malati e degli anziani. Lo scheletro scoperto dai fratelli Bouyssonie, infatti, è quasi del tutto privo di denti e mostra danni alla schiena e alle anche che dovevano rendere difficile la deambulazione senza assistenza.

“Prima di seppellire il suo cadavere”, commenta Rendu, “gli altri membri del suo gruppo probabilmente avevano dovuto prendersi cura di lui anche da vivo”.

National Geographic

Università di New York


Un osso della mano ‘data’ l’origine della destrezza umana

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Gli esseri umani possiedono un’anatomia della mano particolare che permette di creare e utilizzare gli utensili. Le scimmie antropomorfe e i primati non umani non hanno questa caratteristica, e momento in cui questa peculiarità è apparsa per la prima volta nell’evoluzione umana non è noto.

Ora, una ricercatrice dell’Università del Missouri e il suo team internazionale di colleghi hanno trovato un nuovo osso della mano da un antenato umano, vissuto in Africa orientale circa 1,42 milioni di anni fa. Sospettano che l’osso appartenesse a una delle prime specie umane, l’Homo erectus. La scoperta di questo osso è la prima prova di una mano moderna simile a quella dell’uomo, indicando che questa caratteristica anatomica esisteva mezzo milione di anni prima di quanto creduto.

(Università del Missouri)

(Università del Missouri)

“Questo osso è il terzo metacarpale della mano, che si collega al dito medio. È stata scoperta nel sito di Kaitio, in Kenya”, ha detto Carol Ward, professore di patologia e scienze anatomiche all’Università del Missouri. “Ciò che rende questo osso così caratteristico è che la presenza di un processo stiloideo alla fine che si collega al polso. Finora, questo processo stiloideo era stato trovato solo in noi, nei Neandertal e in altri uomini arcaici”.

Il processo stiloideo aiuta le ossa della mano ad attaccarsi alle ossa del polso, permettendo al polso di sopportare maggiori pressioni dovute all’uso della mano.

(Università del Missouri)

(Università del Missouri)

Le ossa della mano, il metacarpo è indicato con il numero 3 (wikipedia)

Le ossa della mano, il metacarpo è indicato con il numero 3 (wikipedia)

Carol Ward (Università del Missouri)

Carol Ward (Università del Missouri)

L’osso è stato trovato vicino ai siti dove sono comparsi i primi utensili acheuleani – delle pietre ovali scheggiate detti bifacciali risalenti a più di 1,6 milioni di anni fa. Essere capaci di produrre tali strumenti indica che questi primi uomini erano quasi certamente in grado di usare le loro mani anche per molti altri compiti complessi.

“Il processo stiloideo riflette una maggiore destrezza che permise alle prime specie umane di usare potenti e precise prese quando si manipolavano gli oggetti. Questo era qualcosa che i suoi predecessori non potevano fare”, spiega Ward. “Con questa scoperta, stiamo eliminando il gap nella storia evoluzionistica della mano umana. Potrebbe non essere la prima apparizione di una moderna mano umana, ma riteniamo che sia vicina alla sua origine, dato che nei fossili umani di 1,8 milioni di anni fa – quindi più antichi – non vediamo questa anatomia. Le nostre mani specializzate e abili sono state con noi per la maggior parte della storia evoluzionistica del nostro genere, Homo. Sono – e lo sono state per quasi 1,5 milioni di anni – il fondamento della nostra sopravvivenza”.

Università del Missouri

Proceedings of the National Academy of Science


Gli europei derivano da tre gruppi di antenati

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Il genoma di una dozzina di europei preistorici suggerisce che il continente sia stato un melting pot in cui i contadini dagli occhi marroni incontrarono i cacciatori-raccoglitori dagli occhi azzurri.

Gli europei di oggi, dimostra l’ultima ricerca, possiedono antenati di tre gruppi in varie combinazioni: i cacciatori-raccoglitori (alcuni con gli occhi azzuri) arrivati dall’Africa più di 40.000 anni fa; i contadini dal Medio Oriente che giunsero molto dopo; e una nuova, più misteriosa popolazione che si estendeva probabilmente dall’Europa del nord alla Siberia.

(De Agostini Picture Library/Getty Images)

(De Agostini Picture Library/Getty Images)

La conclusione arriva dai genomi di otto cacciatori-raccoglitori di 8.000 anni fa – uno dal Lussemburgo e sette dalla Svezia – e al genoma di una contadina di 7.500 anni dalla Germania. L’analisi, condotta da Johannes Krause dell’Università di Tubinga, e David Reich della Harvard Medical School di Boston, è apparsa su bioRxiv.org ma non ancora su una pubblicazione scientifica.

Un secondo team, coordinato da Carles Lalueza-Fox dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona, pubblicherà presto il genoma di un cacciatore-raccoglitore di 7.000 anni del nord-ovest della Spagna. Nel 2012, il suo team aveva rilasciato dei dati preliminari dallo stesso campione, suggerendo che l’uomo avesse poca relazione con gli odierni spagnoli.

I due studi descrivono quelli che sarebbero i più antichi genomi umani europei finora studiati.

Latte o grano

I nuovi studi descrivono i primi europei basandosi su variazioni del DNA che sono collegate a certe caratteristiche negli uomini moderni.

Il sequenziamento dei geni suggerisce che gli individui di Lussemburgo e Spagna, sebbene scuri di carnagione, probabilmente avevano occhi azzurri e appartenevano a gruppi noti per essere cacciatori-raccoglitori. La donna in Germania, invece, aveva occhi marroni e una pelle più chiara, ed era legata ai gruppi mediorientali conosciuti per aver sviluppato l’agricoltura. Tuttavia, sia il cacciatore del Lussemburgo sia la contadina della Germania avevano copie multiple di un gene che rompe amidi nella saliva, una caratteristica delle diete a base di grano tipiche della vita agricola. Dall’altro lato, nessuno di loro aveva l’abilità di digerire lo zucchero del latte, il lattosio, un tratto che è emerso nel Medio Oriente dopo la domesticazione del bestiame e che più tardi si diffuse in Europa.

Il lavoro aggiunge inoltre due sviluppi alla preistoria dell’Europa. I precedenti studi archeologici e genetici indicano che la maggior parte degli europei di oggi discende dai contadini del Medio Oriente, i quali si incrociarono coi locali cacciatori-raccoglitori in alcune regioni, e allontanarono questi primi abitanti in altre. La squadra di Krause conclude però che una terza popolazione contribuì al pool genetico degli odierni europei.

Questo terzo gruppo, che gli autori chiamano antichi eurasiatici del nord, potrebbe aver vissuto ad alte latitudini tra Europa e Siberia fino a poche migliaia di anni fa. Tracce di questa popolazione sono state individuate nel genoma di un bambino siberiano di 24.000 anni. Pubblicate lo scorso mese, il genoma del ragazzo suggerisce che gli eurasiatici del nord si incrociarono con gli antenati dei nativi americani e con gli europei.

I resti del ragazzo siberiano - qui in una ricostruzione della sepoltura (Kelly Graf)

I resti del ragazzo siberiano – qui in una ricostruzione della sepoltura (Kelly Graf)

Differenti migrazioni

Un confronto tra i geni antichi e moderni dimostra che gli europei di oggi derivano da questi tre gruppi. Gli scozzesi e gli estoni, per esempio, hanno più antenati eurasiatici del nord di qualunque altra popolazione europea moderna studiata, mentre i sardi sono più vicini ai contadini orientali rispetto agli altri europei.

I nuovi antichi genomi europei indicano anche le prime volte che gli uomini lasciarono l’Africa. Il team di Krause ha scoperto che gli agricoltori del Medio Oriente si divisero dagli antenati africani prima dei gruppi europei e asiatici. Una spiegazione possibile è che i contadini siano discesi dagli uomini che abitavano insediamenti di 100.000 – 120.000 anni fa in Israele e nella penisola arabica. Molti ricercatori ritengono tuttavia che questi siti rappresentino delle migrazioni fallite fuori dall’Africa, poiché altre prove suggeriscono che gli esseri umani lasciarono l’Africa meno di 100.000 anni fa.

“Non penso che qualcuno l’abbia vista arrivare”, dice Eske Willerslev, paleogenetista all’Università di Copenhagen. Willerslev ritiene che l’esistenza della popolazione nel Medio Oriente sarà difficile da provare in via definitiva: “È molto interessante – se corretto”.

“Sarebbe molto bello trovare qualche individuo che fosse una diretta osservazione di questa popolazione”, dice Pontus Skogland, genetista evolutivo all’Università di Uppsala in Svezia. Il DNA antico non dura tanto nei climi caldi, e perciò trovare il DNA da questa popolazione potrebbe richiedere delle tecnologie avanzate, oltre a un po’ di fortuna.

Lalueza-Fox non ha voluto discutere il lavoro del suo team, ma mette in guardia dal fare troppe affermazioni riguardo il popolamento dell’Europa usando solo una manciata di genomi antichi di un singolo periodo. “Si troveranno molteplici migrazioni e movimenti”, dice. “Ci sarà molto spazio per la ricerca nei prossimi anni”.

Nature


Il cranio di Ardi si collega con l’evoluzione umana

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Una delle questioni più dibattute sulle origini dell’uomo riguarda come la specie dell’Ardipithecus ramidus sia coinvolta nel lignaggio umano.

“Ardi” era un primate insolito. Sebbene possedesse un piccolo cervello e un alluce adatto a salire sugli alberi, aveva dei denti canini simili a quelli dell’uomo e la parte superiore del bacino adatta a camminare su terra come un bipede.

Gli scienziati si chiedono se Ardi, vissuto 4.4 milioni di anni fa, fosse una scimmia antropomorfa con alcune caratteristiche umane rimaste da un antenato comune (il famoso anello mancante, presumibilmente vissuto tra i 6 e i 8 milioni di anni fa o forse 13). Oppure se faceva parte della linea evolutiva umana che conservava ancora molti segni degli antenati che salivano sugli alberi.

Disegno di Ardi (J.H. Matternes)

Disegno di Ardi (J.H. Matternes)

Ci sono voluti 15 anni per estrarre le fragili ossa (Science/AAAS)

Ci sono voluti 15 anni per estrarre le fragili ossa (Science/AAAS)

Una nuova ricerca condotta dal paleoantropologo William Kimbel, apparsa su PNAS, conferma la prima ipotesi. Lo studio della base del cranio di Ardi rivela similitudini con gli uomini moderni.

Tra i coautori dello studio vi sono Tim White  (Università della California a Berkeley), il cui team recupera fossili di Ardipithecus ramidus in Etiopia, nella depressione di Afar, dagli anni ’90; Gen Suwa (museo dell’Università di Tokyo), autore del più recente studio (2009) sul cranio di Ardi che rivelava aspetti umani. Kimbel era a capo di un team che aveva ritrovato i primi teschi conosciuti di Australopithecus nel sito di Hadar, casa di “Lucy”.

(Tim White)

(Tim White)

“Data la dimensione molto piccola del cranio di Ardi, la similitudine della sua base craniale con quella umana è sorprendente”, dice Kimbel.

Questa parte del cranio è importante per la storia evolutiva data la sua complessità anatomica e l’associazione con cervello, postura e masticazione. Negli esseri umani, le strutture che collegano la colonna vertebrale al cranio sono più avanzate rispetto alle scimmie antropomorfe, dove la base è più corta e le aperture su ogni lato per il passaggio dei vasi sanguigni e dei nervi sono più ampiamente separate. Queste differenze di forma modificano il modo in cui le ossa si dispongono sulla base del cranio, dunque è piuttosto semplice distinguere anche dei frammenti ossei.

Un lavoro precedente di Kimbel aveva dimostrato che queste peculiarità erano presenti anche nei crani di Australopithecus 3.4 milioni di anni fa. La nuova ricerca collega queste caratteristiche anche agli uomini moderni, ipotizzando una linea evolutiva Ardipithecus – Australopithecus – Homo.

Arizona State University

Negli scorsi anni erano stati sollevati più dubbi riguardo la posizione di Ardi nella storia evolutiva dell’uomo.



Un focolare di 300.000 anni

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Le tracce di un focolare pieno di cenere e ossa bruciate, rinvenute in una caverna nell’odierna Israele, suggeriscono che i primi esseri umani si sedevano intorno al fuoco almeno 300.000 anni fa, cioè prima della nascita dell’Homo sapiens.

Dentro e intorno al focolare, gli archeologi ritengono di aver trovato frammenti di utensili di pietra probabilmente usati per macellare e tagliare gli animali.

I ritrovamenti potrebbero gettare luce su quando “gli esseri umani cominciarono ad usare regolarmente il fuoco per cucinare carne e come punto focale – una sorta di fuoco da accampamento – per raduni sociali”, dice Ruth Shahack-Gross dell’Istituto Weizmann in Israele. “Ci spiega anche qualcosa riguardo i livelli di sviluppo sociale e cognitivo degli uomini dell’epoca”.

La freccia punta ai resti del focolare (Weizmann Institute)

La freccia punta ai resti del focolare (Weizmann Institute)

Il focolare misurava 2 metri di diametro, e i suoi strati di cenere indicano che venne utilizzato ripetutamente nel tempo, scrivono i ricercatori sulla rivista Journal of Archaeological Science. Shahack-Gross e i suoi colleghi pensano che venne utilizzato da grandi gruppi di uomini delle caverne. Inoltre, la sua posizione implica una qualche decisione su dove accendere il fuoco, e quindi un certo grado di intelligenza.

(Weizmann Institute)

(Weizmann Institute)

Una caverna controversa

La grotta di Qesem è stata scoperta più di un decennio fa durante la costruzione di una strada. Nel sito, erano già state ritrovate tracce di fuoco (depositi di cenere sparsi e mucchi di terra riscaldata ad alte temperature), oltre a ossa macellate di grossa selvaggina come cervi, uri e cavalli risalenti forse fino a 400.000 anni fa.

Gli antropologi hanno dibattuto su quali siano le prime prove di uso controllato del fuoco – e quale specie hominine ne sia responsabile. Cenere e ossa bruciate nella grotta di Wonderwerk in Sudafrica suggeriscono che gli antenati umani usassero il fuoco almeno 1 milione di anni fa. Alcuni ricercatori hanno addirittura ipotizzato che i denti dell’Homo erectus siano un indizio di consumo di cibo cotto sul fuoco a partire da 1,9 milioni di anni fa. Uno studio uscito l’anno scorso sul Cambridge Archaeological Journal spiegava come chi accendeva il fuoco aveva bisogno di abilità per mantenere il fuoco acceso, come pianificazione a lungo termine (raccolta di legna da ardere) e cooperazione di gruppo.

Non è pienamente chiaro chi stesse cucinando nella grotta di Qesem. Uno studio pubblicato tre anni fa sull’American Journal of Physical Anthropology descrive 8 denti scavati a Qesem e datati tra i 400.000 e i 200.000 anni fa. Secondo gli autori potevano appartenere a uomini moderni (Homo sapiens), Neandertal o forse un’altra specie. L’archeologo dell’Università di Tel Aviv Avi Gopher aveva spiegato in una intervista a Nature (suscitando numerose polemiche) che potevano effettivamente essere umani: “I denti più simili a quelli di Qesem sono quelli dalle grotte di Skhul e Qafzeh nel nord di Israele, che risalgono a più tardi, tra gli 80.000 e i 120.000 anni fa, e sono generalmente ritenuti appartenere a uomini moderni”.

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

LiveScience

Istituto Weizmann


Una bacchetta magica con dei visi umani

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In Siria, gli archeologi hanno scoperto un’antica bacchetta magica intagliata con incisi due visi umani. Il manufatto di circa 9.000 anni è stato scoperto vicino a un cimitero. Lì, circa 30 persone erano state sepolte senza le loro teste, che invece sono state rinvenute in un’abitazione vicina.

“La scoperta è molto insolita. È unica”, dice il coautore dello studio Frank Braemer, archeologo al Centre National de la Recherche Scientifique in Francia.

La bacchetta magica, che probabilmente veniva usata in un rituale funerario, è una delle rappresentazioni naturalistiche delle facce umane di questo periodo e luogo, dice Braemer.

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

I ricercatori avevano scoperto la bacchetta durante gli scavi del 2007 e del 2009 nel sito di Tell Qarassa, dove i rifiuti avevano gradualmente creato una collinetta artificiale nel corso dei millenni. Nonostante il saccheggio e il bombardamento di molti siti archeologici in Siria dall’inizio della guerra, questo sito si trova in una zona abbastanza sicura.

Altre scoperte archeologiche del sito suggeriscono che gli antichi abitanti fossero tra i primi contadini al mondo: consumavano farro, orzo, ceci e lenticchie, oltre ad allevare o cacciare gazzelle, capre, maiali e cervi, scrivono gli autori sulla rivista Antiquity.

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

Dopo la sepoltura di scheletri e bacchetta, qualcuno sembra aver scavato e rimosso i teschi, portandoli nella parte abitata dell’insediamento.

La bacchetta di osso era stata probabilmente tagliata dalla costola di un uro (un grande bovino estinto) ed era lunga 12 cm. I due visi, con gli occhi chiusi, erano intagliati nell’osso. La bacchetta venne rotta intenzionalmente in entrambe le estremità, dove verosimilmente vi erano altre facce.

La funzione e il simbolismo dell’oggetto rimangono un mistero. “È chiaramente collegato ai rituali funerari, ma quali siano è impossibile da dire”, spiega Braemer.

La scoperta indica un maggiore interesse verso la forma umana nella cultura. I manufatti più antichi di solito mostravano rappresentazioni stilizzate o schematiche di esseri umani, a parte le raffigurazioni realistiche di animali. L’arte della stessa epoca dissotterrata nelle odierne Giordania e Anatolia impiegano anch’esse rappresentazioni delicate e naturali della forma umana, indice di un trend emerso simultaneamente nelle regioni di tutto il Medio Oriente, spiega Braemer.

L’innovazione artistica potrebbe essere legata al desiderio emergente di creare rappresentazioni materiali di identità e personalità, scrivono gli autori.

Non è chiaro perché qualcuno abbia scavato i teschi e li abbia posti all’interno delle zone abitate dell’insediamento. Ma gli archeologi hanno dissotterrato oggetti simili a Gerico, in Israele, risalenti a circa 9.000 anni fa, dove i teschi erano coperti con gesso e dipinti con lineamenti del viso, poi messi in mostra dentro a spazi abitati.

Una possibilità è che la pratica fosse una forma di culto degli antenati, nella quale i visi umani rappresentavano la presenza vivente di esseri soprannaturali in una forma umanizzata.

È anche possibile, continua Braemer, che le teste mostrate fossero trofei di nemici vinti.

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

(Ibanez et al, Antiquity, 2014)

LiveScience


La dieta e l’attrazione sessuale potrebbero aver favorito la pelle chiara

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Perché alcuni esseri umani hanno la pelle più chiara degli altri? I ricercatori hanno a lungo pensato a cambiamenti avvenuti nel corso di decine di migliaia di anni di evoluzione, con la pelle più scura per chi vive vicino all’equatore a protezione dall’intensità della radiazione solare. Ma un nuovo studio del DNA antico ha concluso che il colore della pelle degli europei ha continuato a cambiare negli ultimi 5.000 anni, suggerendo differenti fattori, tra cui dieta e attrazione sessuale.

Questo individuo di 5000 anni rinvenuto in Ucraina faceva parte di una popolazione che stava evolvendo una pelle più chiara (Alla V. Nikolova)

Questo individuo di 5000 anni rinvenuto in Ucraina faceva parte di una popolazione che stava evolvendo una pelle più chiara (Alla V. Nikolova)

La nostra specie, Homo sapiens, nacque in Africa circa 200.000 anni fa, e gli scienziati ritengono che i primi membri avessero una pelle scura come gli africani di oggi, perché la pelle nera è vantaggiosa in Africa. La pelle nera deriva da alti livelli di melanina, che blocca la luce UV e protegge contro i suoi pericoli come il danneggiamento del DNA – che può portare al cancro delle pelle – e all’esaurimento di vitamina B. Dall’altro lato, le cellule della pelle hanno bisogno di esposizione a una certa quantità di luce UV per produrre vitamina D. Considerando queste pressioni in concorrenza, ha senso che la pelle dei primi esseri umani che si spostarono dall’equatore si schiarisse.

Una recente ricerca, tuttavia, ha suggerito che il quadro non sia così semplice. Innanzitutto, un numero di geni controlla la sintesi della melanina, e ogni gene sembra avere una diversa storia evolutiva. Inoltre, gli esseri umani apparentemente non cominciarono a schiarisi immediatamente dopo la migrazione dall’Africa in Europa, cioè circa 40.000 anni fa. Nel 2012, per esempio, un team condotto da Jorge Rocha, genetista all’Università di Porto, ha esaminato le varianti di quattro geni della pigmentazione nelle popolazioni moderne di portoghesi e africani e ha calcolato che almeno tre di questi quattro geni si evolvettero solo decine di migliaia di anni dopo la migrazione fuori dall’Africa. A gennaio, un altro team, guidato dal genetista Carles Lalueza-Fox dell’Università di Barcellona, aveva sequenziato il genoma dallo scheletro di un cacciatore-raccoglitore di 8.000 anni dal sito di La Braña-Arintero in Spagna e ha scoperto che aveva la pelle scura – suggerendo che vi fu una selezione naturale verso la pelle chiara solo relativamente tardi nella preistoria.

Questo cacciatore di 8000 anni trovato in Spagna aveva la pelle scura e gli occhi azzurri (J.M. Vidal Encina; (illustration, inset) CSIC)

Questo cacciatore di 8000 anni trovato in Spagna aveva la pelle scura e gli occhi azzurri (J.M. Vidal Encina; (illustration, inset) CSIC)

Per avere un’idea migliore di come la pigmentazione della pelle degli europei sia cambiata nel tempo, un team guidato da Mark Thomas, genetista evolutivo all’University College London, ha estratto il DNA da 63 scheletri trovati in Ucraina e zone limitrofe. I ricercatori sono stati in grado di sequenziare tre geni coinvolti nella pigmentazione da 48 degli scheletri (datati tra i 6500 e i 4000 anni): il gene TYR, coinvolto nella sintesi della melanina; SLC45A2, che aiuta il controllo della distribuzione degli enzimi della produzione dei pigmenti nelle cellule della pelle; e HERC2, il gene primario che determina se l’iride dell’occhio è marrone o blu. Questi tre geni, come tutti i geni della pigmentazione, hanno numerose varianti che portano a differenti sfumature di pelle, capelli e colore degli occhi.

Paragonando le varianti di questi geni negli scheletri antichi con quelli di 60 odierni ucraini, oltre a un campione più grande di 246 genomi moderni della regione circostante, il team ha scoperto che la frequenza delle varianti legate a pelle e capelli più chiari, come gli occhi azzurri, è aumentata sensibilmente tra le popolazioni antiche e moderne. Per esempio, gli ucraini moderni in media hanno più di otto volte le varianti del TYR correlate alla pelle chiara, e quattro volte quelle per gli occhi azzurri, rispetto agli antichi ucraini, scrivono i ricercatori sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences. Le popolazioni africane, invece, non hanno nessuna di queste varianti più chiare.

Tuttavia, anche se rispetto ai loro antenati in Africa gli ucraini preistorici avevano apparentemente evoluto pelle e occhi relativamente più chiari, e una frequenza maggiore di occhi azzurri, i dati suggeriscono che non avevano finito con l’evoluzione. Per testare ulteriormente questa conclusione, il team ha effettuato delle simulazioni al computer al fine di distinguere tra la selezione naturale e un “corso genetico”, un cambiamento nella frequenza delle varianti genetiche dovute solo al caso. Questi test – che prendono in considerazione le dimensioni delle popolazioni antiche e il tasso col quale avvengono le alterazioni genetiche – hanno mostrato che i geni della pigmentazione continuarono ad essere sottoposti a una forte selezione naturale anche dopo i 5000 anni fa; infatti, la pressione verso la loro selezione continuò ad essere grande quanto quella per altri geni, come quelli coinvolti nell’abilità di digerire il lattosio e la protezione contro la malaria.

“I segni della selezione sono davvero persuasivi”, dice Rocha. Usando il DNA antico, spiega, il team è stato in grado di “fornire prove dirette” che “una forte selezione positiva era probabilmente la guida” dei cambiamenti nei profili di pigmentazione.

Ma perché la forte selezione naturale per pelle, capelli e occhi chiari continuò ancora per migliaia di anni dopo che gli esseri umani lasciarono l’Africa e i suoi brutali raggi UV? Nel caso del colore della pelle, il team ipotizza che queste popolazioni, che rappresentano i primi agricoltori, avessero precedentemente ricevuto un sacco di vitamina D dal loro cibo, come pesci e fegati animali ricchi di vitamina D, quando erano cacciatori-raccoglitori. Ma dopo l’avvento dell’agricoltura, quando i cereali come grano e orzo diventarono una parte importante della loro alimentazione, i primi europei ebbero bisogno di sintetizzare un più grande ammontare di vitamina D nella loro pelle. È lì che lo schiarimento divenne molto vantaggioso. Lo studio “fornisce prove che la perdita di un regolare apporto di vitamina D nella dieta come risultato della transizione verso uno stile di vita più agricolo possa aver innescato” l’evoluzione della pelle più chiara, dice Nina Jablonski, una eminente ricercatrice del colore della pelle alla Pennsylvania State University.

Secondo Thomas e i suoi colleghi, il trend verso capelli e occhi più chiari potrebbe essere stato incentivato dall’attrazione sessuale – quello che in termini evolutivi è chiamata selezione sessuale. In questo caso, i rari maschi e femmine dell’epoca con capelli chiari e occhi azzurri potrebbero essere stati attrattivi verso il sesso opposto in modo da avere più prole; questo tipo di preferenza sessuale per gli individui con insolite apparenze è stata confermata in altri animali, come i pesci guppy.

Ovviamente, in alcune delle culture di oggi, anche una abbronzatura è considerata sexy, e qui lo studio potrebbe dare delle notizie positive: le moderne varianti del HERC2 rendono anche più facile l’abbronzatura.

Science


Il più antico scheletro completo di un uomo affetto da cancro

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Sebbene il cancro sia oggi una delle maggiori cause di morte, gli scienziati non ne hanno trovate molte tracce nei reperti archeologici. Dato che alcune delle cause principali – fumo, inquinamento, obesità e longevità – sembrano essere assenti dai resti delle antiche popolazioni, il cancro è stato a lungo considerato una malattia moderna.

Ora, tuttavia, una nuova scoperta suggerisce che potrebbe essere stata diffusa anche migliaia di anni fa. Un team di archeologi britannici ha annunciato la scoperta del più antico caso di cancro metastatico in un essere umano: era nella scheletro di un giovane uomo morto nella Valle del Nilo circa 3.200 anni fa. Gli scienziati sperano che i nuovi ritrovamenti li aiuteranno a comprendere le origini e l’evoluzione di questa fin troppo comune, spesso mortale, malattia.

Lesioni sulla scapola destra (Trustees of the British Museum)

Lesioni sulla scapola destra (Trustees of the British Museum)

(Plos one)

(Plos one)

(PLOS ONE)

(PLOS ONE)

Michaela Binder, dottoressa di ricerca all’Università di Durham, ha scavato lo scheletro nel 2013 nel sito archeologico di Amara West, nel nord del Sudan. Seppellita in una bara di legno, apparteneva a un uomo tra i 25 e i 35 anni, e faceva parte di una dozzina di scheletri rinvenuti grazie alla spedizione archeologica condotta da Neal Spencer, del dipartimento dell’Antico Egitto e del Sudan del British Museum.

(PLOS ONE)

(PLOS ONE)

Dopo aver esaminato lo scheletro del giovane usando la radiografia e un microscopio elettronico a scansione, una squadra di ricercatori dell’Università di Durham e del British Museum sono stati in grado di ottenere chiare immagini delle lesioni sulle ossa. Secondo i loro ritrovamenti, pubblicato su PLOS ONE, le lesioni suggeriscono che un qualche tipo di cancro si fosse diffuso in tutto il corpo, tra cui bacino, spina dorsale, scapole, sterno, clavicole e costole. Dice Binder: “La nostra analisi mostra che la forma delle piccole lesioni sulle ossa può essere stata causata solo da un tumore dei tessuti molli… sebbene l’origine esatta sia impossibile da determinare attraverso le sole ossa”.

(PLOS ONE)

(PLOS ONE)

(PLOS ONE)

(PLOS ONE)

Lo scheletro del giovane (Trustees of the British Museum)

Lo scheletro del giovane (Trustees of the British Museum)

(PLOS ONE)

(PLOS ONE)

(PLOS ONE)

(PLOS ONE)

Oltre al cancro, lo scheletro del giovane ha anche evidenziato tracce di forti carie e sinusite cronica. In generale, i resti recuperati dal sito di Amara West mostrano una salute generale della popolazione notevolmente povera, e gli individui sembrano aver vissuto durante un cambio climatico e ambientale. Un quarto dei 180 scheletri esaminati dal team britannico ha mostrano segni di malattie polmonari croniche, mentre tutti avevano segni di serie malattie dentali.

Lo scheletro di Amara West non contiene la prima prova di cancro nel mondo archeologico. L’anno scorso, per esempio, un team americano di ricercatori aveva pubblicato una ricerca su una costola di Neandertal di 120.000 anni ritrovata in una caverna in Croazia, che mostrava segni di tumore alle ossa. Ci sono stati diversi ritrovamenti datati a circa 4.000 anni con segni di possibile cancro. Tuttavia, poiché la nuova scoperta è uno scheletro completo, e non solo un teschio o resti incompleti, gli scienziati sperano possa contenere valide informazioni riguardo la diffusione del cancro e la sua evoluzione in epoca moderna. Analizzando il DNA dello scheletro, per esempio, potrebbero imparare quali furono le mutazioni genetiche che resero il giovane predisposto al cancro. Oltre ai difetti genetici, i ricercatori hanno identificato gli agenti cancerogeni ambientali, come il fumo dei fuochi, o un’infezione come la schistosomiasi (causata da parassiti) o altre possibili cause della malattia.

History

Durham University


Little Foot, l’australopiteco sudafricano, contemporaneo di Lucy?

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Secondo una nuova ricerca pubblicata sul Journal of Human Evolution, Little Foot (“piccolo piede”), il fossile hominine più completo al mondo, risale a molto prima di quanto si pensasse – 2,2 milioni di anni – e potrebbe aiutare gli scienziati a identificare meglio l’identità degli antenati più prossimi all’uomo.

Little Foot (Ronald Clarke)

Little Foot (Ronald Clarke)

(Laurent Bruxelles, Inrap)

(Laurent Bruxelles, Inrap)

La prima analisi dei sedimenti nella grotta di Silberberg, nel sito di Sterkfontein in Sud Africa dove era stato scoperto Little Foot, mostra che il fossile di Australopithecus risale probabilmente a 3 milioni di anni o più, dice Laurent Bruxelles, geomorfologo all’Inrap (Institut National de Recherches Archéologiques Préventives).

Questo renderebbe Little Foot, ufficialmente chiamato StW 573, un contemporaneo di Lucy, il famoso fossile di Australopithecus afarensis scoperto in Etiopia nel 1974.

(Laurent Bruxelles, Inrap)

Le grotte di Sterkfontein (Laurent Bruxelles, Inrap)

La grotta di Silberberg (Laurent Bruxelles, Inrap)

La grotta di Silberberg (Laurent Bruxelles, Inrap)

(Laurent Bruxelles, Inrap)

(Laurent Bruxelles, Inrap)

Ron Clarke, un docente della Witwatersrand University oggi in pensione, aveva scoperto quattro ossa del piede di Little Foot in una scatola di fossili animali provenienti dal sito nel 1994, 16 anni prima che lo scheletro venisse interamente dissotterrato. A differenza delle altre Australopitecine rinvenute nell’area, che è stata classificata dall’UNESCO come la “Culla dell’umanità” nel 1999, Little Foot cadde 20 metri verso la sua morte invece di essere divorato da un predatore, ha detto Bruxelles, autore dello studio.

Laurent Bruxelles et Ron Clarke (Francis Duranthon, Muséum d’Histoire Naturelle de Toulouse)

Laurent Bruxelles et Ron Clarke (Francis Duranthon, Muséum d’Histoire Naturelle de Toulouse)

Laurent Bruxelles (Francis Duranthon, Muséum d’Histoire Naturelle de Toulouse)

Laurent Bruxelles (Francis Duranthon, Muséum d’Histoire Naturelle de Toulouse)

I tentativi di datare lo scheletro di Little Foot, completo al 95%, hanno suscitato controversie in passato. Clarke inizialmente aveva pensato che avesse circa 3 milioni di anni, e appartenesse al Australopithecus prometheus invece che al più noto Australopithecus africanus. Diversi studi successivi avevano stimato la sua datazione tra gli 1,5 e i 4 milioni di anni.

“Geologicamente, Little Foot potrebbe persino avere 4 milioni di anni, ma saranno i paleontologi a dirlo”, spiega Bruxelles. Il significato degli ultimi ritrovamenti, aggiunge, è che uno dei due lignaggi “potrebbe aver lasciato un antenato prossimo dei primi esseri umani, mentre l’altro probabilmente non lasciò discendenti”.

Abel Molepolle ha pulito diverse parti dello scheletro (University of the Witwatersrand)

Abel Molepolle ha pulito diverse parti dello scheletro (University of the Witwatersrand)

(University of the Witwatersrand)

(University of the Witwatersrand)

Nature

Science

Inrap

University of the Witwatersrand


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